lunedì 29 agosto 2011

Il forum No Tav

L'Internazionale dei No-tutto
Alessandro Mondo - La Stampa, 29 agosto 2011

«Vi porto brutte notizie: la battaglia non potrà essere vinta nel Parlamento europeo e nemmeno in quelli nazionali, dove in tutti i partiti, di destra come di sinistra, prevalgono quanti difendono gli interessi di banchieri e speculatori. Servono nuovi partiti di lotta che non tradiscono i cittadini».
Paul Murphy
La migliore sintesi del Forum internazionale organizzato dal Movimento No Tav a Bussoleno riecheggia nel proclama di Paul Murphy: eurodeputato irlandese del Partito socialista, «con il quale sono in dissenso su questi temi», iscritto al gruppo della Sinistra unitaria a Bruxelles. Se il concetto è questo, come hanno dimostrato gli applausi della platea, il termine «partito», di lotta o meno, rischia di essere improprio: perché tutto desidera il Movimento No Tav meno che diventare un partito, anche solo alla lontana. Piuttosto, una federazione di movimenti - ciascuno con il suo Golia da abbattere (super-treni, autostrade, inceneritori, gallerie, piattaforme petrolifere) -, o se preferite un’Internazionale della protesta unita dalla rete e strutturata in modo sempre più sofisticato. Restando in Italia, e alla Valle Susa, sono semmai i partiti tradizionali - sempre di lotta ma ormai all’angolo - ad appoggiarsi ai No Tav come una stampella per rilanciare le loro battaglie.
Emblematico l’intervento di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc, che prima di visitare con Murphy il cantiere della Maddalena ha chiesto al Movimento di mobilitarsi il 6 settembre in occasione dello sciopero generale e per stoppare il «Giro della Padania» in programma lo stesso giorno: «Questo tour di regime è riconosciuto dalla Federazione ciclistica italiana, significa che lo Stato fa suoi i simboli di un partito razzista. Saremo a Paesana, la tappa di partenza, per bloccare l’iniziativa. Vi invito ad unirvi a noi». In mattinata aveva preso la parola Gianni Vattimo, nel pomeriggio Ferrero e Guido Viale. Tra gli ultimi a intervenire, Sandro Plano. Difficile sapere se i «No Tav» manderanno a Paesana una delegazione. «Mentre in concomitanza dello sciopero studieremo qualcosa», anticipa Alberto Perino, protagonista di una requisitoria contro le forze dell’ordine che presidiano il cantiere di Chiomonte: «Non giustifico le violenze, sono inaccettabili da ambo le parti, ma lo Stato non può continuare a calpestare i diritti dei cittadini».
Resta la sensazione di un salto di qualità del Movimento, in cerca di sponde oltreconfine: perché è sempre più solo, come teorizzano gli avversari, o perché ha capito che non mancano i punti d’incontro con altre proteste-gemelle. Alcune si sono manifestate ieri negli interventi appassionati tradotti dagli interpreti a uso del pubblico italiano, francese, spagnolo e tedesco: dalla levata di scudi contro la costruzione di una nuova galleria in Cadore al braccio di ferro tra la polizia tedesca e «Stuttgart 21». L’oggetto del contendere - spiega Thomas Puls, esponente del movimento - è la demolizione della vecchia stazione ferroviaria di Stoccarda per costruirne una ad Alta Velocità, con l’abbattimento di alberi centenari e costi lievitati in corso d’opera. Da qui il susseguirsi di manifestazioni, tensioni e scontri: «Anche nel nostro caso la polizia ci criminalizza».
Fronti comuni, che potrebbero saldarsi una volta di più. L’«Internazionale dei Nimby», come paventano i detrattori, o una nuova forma di democrazia partecipata e transnazionale? La partita è aperta.

sabato 27 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli

Dal mio blog sul sito de Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli
La caduta di Gheddafi suscita pochi rimpianti in Italia. Certo, industriali e speculatori di borsa possono vedervi nuove opportunità di guadagno, e alcuni sionisti, più o meno fanatici, la potrebbero considerare anche una vittoria di Israele, quale in effetti è (immagino le critiche, mi vien da aggiungere; ma che dire della politica di potenza di Tel Aviv? Non è forse questa un’ennesima occasione per discuterne?). Ma negli ultimi anni, e sempre più, col passar del tempo, il carattere totalitario del suo governo in Libia aveva allontanato da lui ogni simpatia nata negli anni in cui si presentava come capo di una rivoluzione anti-imperialista. Un destino peraltro condiviso da molti capi di stato di paesi arabi rapidamente divenuti satelliti obbedienti dell’Occidente (anche qui, non sarebbe ora di svecchiare il nostro modo di guardare, e dunque stare, al mondo? Possibile che nemmeno oggi, dopo la fine del colonialismo e della guerra fredda, non sia questa la questione principale da porsi per i cittadini europei nelle relazioni internazionali?). In Italia, poi, era divenuto l’alleato naturale dei fascisti della Lega Nord (immagino ancora critiche; ma davvero esistono altri termini per definire la relativa politica leghista?) che lo utilizzavano, con tutto il governo Berlusconi, per reprimere l’immigrazione clandestina aprendo veri e propri lager sulla sponda meridionale del Mediterraneo.



Quindi, nessun rimpianto per Gheddafi e la sua dittatura. Ma proviamo certamente sdegno, anche vero e proprio disgusto per la politica della Nato e dell’Ue, nonché per  le bugie che ci propinano i giornali e le televisioni, quando (sempre) parlano di vittoria dei “ribelli“. Che sono quasi tutti ex collaboratori del regime di Gheddafi, armati e organizzati, molto prima delle “rivoluzioni arabe” dei mesi scorsi, da Francia e Gran Bretagna con l’approvazione degli Usa.

La Libia, del resto, era il paese più ricco dell’Africa mediterranea; l’opposizione al regime, se aveva qualche radice popolare, era ispirata da motivi etnici, per lo più, non era certo una rivolta di proletari affamati o anche di sinceri democratici assetati di libertà. La cosiddetta liberazione della Libia è solo l’ennesimo atto del colonialismo occidentale che usa la Nato come propria polizia privata per difendere gli interessi economici del grande capitale multinazionale. Sono forse gli interessi dei popoli europei frustati dalla crisi della finanza? Non lo sappiamo, ci sarà certo un po’ di lavoro in più per la cosiddetta ricostruzione (affidata poi alle ditte di Cheney, come in Iraq?). Le borse, come si sa, hanno reagito benissimo alla caduta di Gheddafi. Il senso di questa lotta “popolare” è tutto lì, e le tante vittime civili sono alla fine servite a far salire di qualche punto il valore delle azioni di tante compagnie. Alla salute della democrazia!

Gianni Vattimo

Anarchismo e filosofia radicale

Penso anarchico
L'Espresso, 1 settembre 2011

Mai come oggi l’anarchismo sembra far sentire il proprio fascino, anche se, del resto conformemente alla sua essenza, se ce n’è una, è piuttosto uno stato d’animo diffuso che una teoria chiara o un movimento politico definito. Nel linguaggio delle polizie si chiamano anarco-insurrezionalisti, con una generalizzazione decisamente minacciosa, tutti coloro che si oppongono con qualche iniziativa concreta (No Tav in Val di Susa, anzitutto) ai piani non di rado devastanti del potere capitalistico. Ottima dunque l’iniziativa di Salvo Vaccaro (professore di Filosofia politica a Palermo) di presentare al pubblico italiano una serie di saggi, finora non tradotti, su anarchismo e filosofia radicale del Novecento (“Pensare altrimenti”, elèùthera, pp. 212, € 15). Dove i filosofi di riferimento, discussi da vari autori, sono Lévinas, Derrida, Foucault, Deleuze. I rapporti di questi maestri del pensiero radicale con l’anarchismo hanno per lo più una connotazione filosofica e non direttamente politica: Vaccaro li sceglie per contribuire a un ripensamento dell’anarchismo fuori dai suoi classici, e un po’ imbalsamati, riferimenti storici. Molto stimolanti sono le discussioni sull’anarchismo di Emmanuel Lévinas, i cui cultori italiani saranno forse sorpresi di vederlo presentato (da Miguel Abensour) in questa luce, del resto non senza un interessante riscontro polemico (pensiamo al saggio di Simon Critchley) e, naturalmente, su Derrida, soprattutto delle opere ultime. Ma l’anarchismo non è solo teoria, non è un “sapere”, come dice Lyotard nel suo “Addio a Lévinas”. Anche questo i saggi raccolti da Vaccaro si sforzano di farci capire.

Gianni Vattimo

venerdì 26 agosto 2011

Dibattito sul postmoderno

Nel ricordarvi di acquistare il numero di MicroMega in edicola (fino a lunedì, poi in libreria), segnalo qui la discussione aperta da MicroMega stessa sul suo sito, che raccoglie gli interventi apparsi in coda al dialogo pubblicato da Repubblica tra il sottoscritto e Maurizio Ferraris, L'addio al pensiero debole che divide i filosofi. Trascrivo qui, per i lettori di questo blog, gli articoli (in gran parte pubblicati da Repubblica in data odierna) in questione, firmati da Pierfranco Pellizzetti, Pier Aldo Rovatti, Paolo Flores d'Arcais, Paolo Legrenzi e Petar Bojanic. Un intervento di Giuliano Ferrara sugli stessi temi è uscito sul Foglio il 22 agosto ed è disponibile qui.



A che punto è il pensiero? Debole, forte o esistenziale? 
di Raffaella De Santis

Postmoderni o neorealisti? O anche: pensiero debole o pensiero forte? Interpretazioni o fatti? Sono alcuni degli interrogativi che stanno animando il dibattito filosofico, dopo la pubblicazione su Repubblica, lo scorso 8 agosto, del manifesto con cui Maurizio Ferraris ha presentato il New Realism, il "nuovo realismo" filosofico, con l'intento di sorpassare l'impasse del postmoderno e le sue "derive" ermeneutiche. Da quel primo intervento ne è scaturito un dialogo tra Ferraris e Gianni Vattimo, tra chi vuole riportare la concretezza della realtà al centro della riflessione e il padre del pensiero debole. Ed è allora partendo proprio da quel dialogo, pubblicato su queste pagine il 19 agosto, che abbiamo deciso di ospitare interventi di filosofi e studiosi. Scrive Paolo Legrenzi, psicologo cognitivo all' università Ca' Foscari di Venezia: «Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l'evoluzionismo e lo studio del cervello, stanno occupando la scena». E Petar Bojanic, allievo di Derrida, tra i fautori di un ritorno al realismo filosofico, mette in guardia dagli eccessi delle interpretazioni, perché in questo modo finisce che «anche il passato può essere riscritto». Così se Pier Aldo Rovatti ricorda l'inizio di quel percorso che trent' anni fa portò alla nascita del pensiero debole, difendendo l' anima "politica" delle posizioni di allora: «Nasceva come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica», Paolo Flores d'Arcais rintraccia in Abbagnano, Bobbio e Geymonat i precedenti che hanno avuto il merito di riportare la filosofia su un terreno neo-illuminista. Il New Realism sarà oggetto di una tavola rotonda il prossimo novembre a New York, all'Istituto Italiano di Cultura, mentre a primavera è previsto un convegno internazionale a Bonn, organizzato dallo stesso Ferraris insieme a Umberto Eco, John Searle, Markus Gabriel e Petar Bojanic.

Baruffe torinesi su favole e verità



Neo-Realismo vs. Postmoderno Debole? Insomma, Cesare Zavattini o Wim Wenders?
Il dibattito ferragostano tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, apparecchiato sulle pagine de La Repubblica il 19 agosto, potrebbe essere letto come una disputa interna alla famiglia accademica torinese, in cui il più giovane tra i due contendenti (Ferraris, già cucciolo della redazione che nel 1983 assiemò in volume la raccolta di saggi eponima del debolismo o, come lo chiama Carlo Augusto Viano, flebilismo) elabora ancora una volta il lutto dell'uccisione simbolica del padre accademico (appunto, Vattimo), tradito per i più up to date lidi del post-post-modernismo.

Chi scrive, d'istinto parteggerebbe per l'agonista under, certo più spiritoso dell'over e probabilmente – lui sì – ancora studioso, quando il suo antico maestro ormai campa di rendita; come risultò ancora una volta l'aprile scorso, nella performance vattimiana al Festival della Laicità di Reggio: la sua giustificazione dell'essere credente (in dio o Chavez?) era solo la deliberata volontà di prendersi gioco dell'uditorio o che altro?

Quale l'oggetto dell’attuale contendere? Presto detto (si fa per dire): se, in campo ontologico, dunque riguardo ai modi di esistenza della realtà, valga solo l'interpretazione oppure si mantenga un nocciolo duro di fattualità. Discussione che entra almeno nel suo secondo secolo di vita, come ricerca di una via altra tra idealismo e positivismo. D'altro canto lo snobismo torinese ama il remake. Anche filosofico. Operazione in cui uno come lo scrivente, che bazzica marciapiedi infinitamente sottostanti al ciel dei cieli del pensiero che riflette su se stesso, evita accuratamente di addentrarsi; lascia senza troppi rimpianti o frustrazioni a tipi come John Searle le questioni sul misterico del "come può esserci un insieme epistemicamente oggettivo di affermazioni relative a una realtà che è ontologicamente soggettiva" (Creare il mondo sociale, Cortina, Milano 2010 pag. 21).

Eppure anche il rozzo frequentatore del fatto sociale bruto intuisce che la filosofia sarà pure un genere letterario, quanto l’economia, la sociologia o la teologia; ciò nonostante l’assunto dell’ermeneutica quale teoria della verità-storicità, che interpreta il Moderno producendo favole e miti, incontra qualche difficoltà a non evaporare davanti all’obiezione di Flores d’Arcais: “una favola può smentire un’altra favola?” (Almanacco di filosofia, MicroMega 2011).

Difatti, dopo l’overdose decostruttiva, dopo tanto accatastare nuvole postmoderniste, dopo i tanti appelli narcisistici alla condizione del nomadismo senza scopo, in cui il bla-bla benaltristico finiva per produrre lische di pesce consistenti quanto il fumo di una papier mais da intellettuale di Rive Gauche, l'estensore di queste note aveva apprezzato il tentativo di ritrovare un ancoraggio di senso/significati.

Ben venga – dunque – chi dice che "senza ontologia non ci possono essere né epistemologia né etica, perché la realtà (l'ontologia) è il fondamento della verità (l'epistemologia) e la verità è il fondamento della Giustizia (l'etica)”. (M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2010 pag. 89).
Possiamo spingere – però – la nostra ricostruzione post decostruzione fino al punto di rinunciare a quella fondamentale ermeneutica del sospetto che chiamiamo "critica"? Ferraris lo nega. Però, quanto è conseguente laddove contesta l'affermazione che la realtà viene ricostruita comunicativamente e presentata sotto forma di illusione, forgiata – appunto – dal Potere come arma al servizio della propria autoperpetuazione? Può negare la grande mistificazione come gioco degli specchi (deformanti) linguistici, in nome di una irriducibile verità della realtà, quando tale verità-realtà viene condivisa linguisticamente? Può farlo dopo "le armi di distruzione di massa irachene" o il "ghe pensi mì" berlusconiano?

Il mondo (per qualcuno) sarà pure una favola, ma (per tutti noi) è anche il campo di battaglia dove eserciti d’occupazione combattono per la conquista di una legittimità gabellata quale naturalità, corrispondenza all’ordine naturale delle cose. E questo, prima dei filosofi decostruttori e affabulatori, ce lo prospetta proprio un uomo di guerra; il generale dei generali David H. Petraeus: “quello che i decisori politici pensano sia accaduto è ciò che conta, più di quanto sia effettivamente accaduto”.
Difatti nella sua (molto blasé, dunque torinese) querelle con l'ex maestro Vattimo, l’allievo le spara davvero grosse: "se diciamo che la cosiddetta verità è un affare di potere, perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?".

Non so Ferraris, ma altri continuano a ragionare sospettosamente sulla realtà sociale, proprio perché su di essa sono al lavoro tanti spudorati maghi illusionisti. Magari – per dirla alla Pierre Bourdieu – per "rendere problematico quello che appare scontato" e mostrare come l'evidente sia sempre costruito, a partire da poste in palio e rapporti di forza. La Forza, un punto da cui ripartire nelle faccende umane dopo tanta indefinitezza debolistica. Non un'inesitente forza dei fatti "veri", quanto l'intrinseca cogenza del dominio e della sottomissione. In tutta la loro materialità.

Atteggiamento laico e critico, cui faceva appello una altro torinese (lui – però – ben poco snob; semmai severo come gli antichi maestri alla Gaetano Salvemini) – il buon Viano – quando bastonava in un libello einaudiano, dell'Einaudi del bel tempo che fu (Va' pensiero, 1985), la combriccola dei "flebili". Appunto, dal Vattimo al Ferraris.

(25 agosto 2011)




L’idolatria dei fatti
di Pier Aldo Rovatti, da Repubblica, 26 agosto 2011

Il pensiero debole, nato 30 anni fa grazie a un reading curato da Gianni Vattimo e da me, ha avuto una imprevedibile diffusione internazionale. Certo, anche le sciocchezze possono andare in giro per il mondo e trovare ascolto. Non so se questo sia il caso, e comunque non mi affretterei a darlo per morto.

In autonomia dallo stesso Vattimo, con il quale tuttora condivido lo stile, la funzione e il senso di questo modo di pensare, e soprattutto la sua potenzialità emancipatoria, ci ho lavorato sopra da allora, puntando sui temi del gioco e del paradosso, senza di cui credo che si possa capire poco della difficile realtà in cui viviamo (e spesso ci dibattiamo).


L'amico Ferraris lavorava gomito a gomito con me e con Vattimo, poi ha ritenuto opportuno andare per la sua strada che oggi chiama "nuovo realismo". Ho letto con molta attenzione il suo dialogo con Vattimo e sono rimasto – come molti – alquanto perplesso. Vi ho trovato un'eccessiva semplificazione. Come accade quando si vuole tirare troppo la coperta dalla propria parte, si rischia di deformare un poco le cose.


Innanzi tutto, pensiero debole e postmodernità non possono essere sovrapposti. Forse la postmodernità ha fatto il suo tempo, mentre il pensiero debole era e rimane una maniera di leggere l'intera filosofia, mettendovi decisamente al centro la questione del potere. Nasceva infatti come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica e di conseguenza sospettava di ogni fissazione oggettivistica della Verità (con la iniziale maiuscola). Non si presentava come un semplice discorso teorico, aveva una valenza esplicitamente "politica", e il carattere di una mossa etica che Vattimo chiamava pietas (cioè, sostanzialmente, un ascolto del diverso) e che per me era un contrasto tra pudore e prepotenza per guadagnare uno spazio di gioco nelle maglie strette dell'uso dominante della teoria.


Quando, oggi, si riduce tutto ciò a una querelle semplificata tra fatti e interpretazioni, si corre il pericolo di evacuare proprio questa sostanza etico-politica e di ridurre il pensiero debole a una specie di barzelletta. Non esistono fatti nudi e crudi che non abbiano a che fare con qualche interpretazione, questo è un fatto, così come sono fatti (duri e provvisti di effetti) le singole interpretazioni. Che oggi ci sia il sole o piova non mi dice niente sulla realtà in cui stiamo vivendo e nella quale temiamo di soccombere. Anzi, c'è da chiedersi perché qualcuno abbia bisogno di costruirsi questo paraocchi lasciando fuori dalla vista le cose più importanti. Il pensiero debole nasceva, poi, in una particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault e con le sue analisi del potere microfisico e della società disciplinare. Ora, che abbiamo potuto conoscere meglio le sue ultime ricerche, il debito si è allargato, e non è un caso che Foucault non trovi nessuna cittadinanza nel cosiddetto new realism di Ferraris.


Un punto fa da spartiacque, e riguarda la verità. Foucault ci ha insegnato, con un gesto nietzschiano, che la storia (sì, la storia!) è un susseguirsi di giochi di verità, il che significa che i valori del vero e del falso si trasformano, sono la posta in gioco di un pesante e determinato conflitto, vengono di volta in volta innalzati sulle bandiere dentro una lotta di posizioni e per ottenere vantaggi. Dal dispositivo di potere (reale) non si evade con un semplice colpo di filosofia, e quando si eternizzano le categorie, cercando di fissare cosa è veramente reale, non si fa altro che assumere una posizione dentro il dispositivo, che lo sappiamo oppure no. Mi chiedo cosa abbia da dire il nuovo realismo a questo riguardo, una volta che si sia sgombrato il campo da contrapposizioni un po' di scuola e un po' artificiose, dato che nessuno dubita che la realtà abbia una consistenza e produca effetti. Sicuramente non lo dubitano coloro che hanno trovato nel pensiero debole molti attrezzi per la loro cassetta.


(26 agosto 2011)




Per farla finita con il postmoderno




La visione che ci restituisce il mondo
di Paolo Legrenzi, da Repubblica, 26 agosto 2011


Nella psicologia è circolata per molto tempo l'idea che quel che conta sono le interpretazioni, e non i fatti. Anzi, sono le interpretazioni stesse a creare i fatti. In una variante di psichiatria sociale, il matto era, semplificando (ma non tanto), il risultato di chi lo classificava come tale. Cambiata la società, eliminata l'etichetta, trattati i matti da persone normali, il problema si sarebbe ridotto, se non dissolto. In forme meno grossolane, questa stessa idea permeava altre scienze umane.

Oggi il vento è cambiato. Due grandi tradizioni di ricerca, l'evoluzionismo e lo studio del cervello, anche grazie a nuove tecniche di osservazione, stanno occupando la scena. L'uomo è un pezzo della natura biologica, e non è poi così speciale. L'idea che sia lui a costruire il mondo, con le sue categorie di osservazione e d'interpretazione, è al tramonto. Si celebra così la fine del presunto primato dell'interpretazione sui fatti. Non ci si era mai spinti ad affermare che leggi scientifiche – come, poniamo, la legge dei gas –, fossero interpretazioni del comportamento dei gas. E tuttavia per le scelte individuali e le società era così. Circola poi, ancor oggi, una variante politica, nel senso che chi detiene il potere politico e i media può "costruire" la realtà. Era questo cui alludeva Donald Rumsfeld, il segretario alla difesa del secondo Bush, quando affermava, dopo la caduta del comunismo: «Ora il mondo lo facciamo noi».

Questa versione "forte" del credo "interpretativo" è fallita miseramente. I fatti si vendicano nella politica estera americana. I fatti presentano il conto. Il potere politico può, anche per molto tempo, far sì che l'opinione pubblica riconosca un fenomeno "da un certo punto di vista", ma non può fare di più.

Quando s'insegna psicologia, al primo anno di studi, si deve contrastare lo spontaneo "realismo ingenuo" degli studenti. Esso consiste nel pensare che noi vediamo il mondo così com'è, semplicemente perché è fatto così. In realtà il nostro sistema percettivo è un intreccio di meccanismi inconsapevoli che ci "restituisce" il mondo in seguito a una complessa elaborazione di ipotesi su quello che c'è là fuori. E anche il pensiero umano funziona così. Questo però non implica sposare la tesi che la mente crea il mondo. Al contrario, la mente dell'uomo e degli altri animali fa ipotesi su come funziona il mondo e le aggiorna continuamente perché l'azione umana cambia il mondo. Questa è la tensione che sbrigativamente si etichetta con il binomio natura/cultura.

Agli psicologi cognitivi piace che in filosofia stia emergendo una posizione chiamata "nuovo realismo". Non possono concordare né con il realismo ingenuo, né con la rozza idea che siamo noi a creare i fatti con le nostre interpretazioni. Per quanto concerne la versione politica, questa tesi si è sconfitta da sola. 




Perché serve una prospettiva diversa
di Petar Bojanic, da Repubblica, 26 agosto 2011



Nel gennaio scorso Ferraris e io eravamo a Parigi, e al termine di una sua conferenza sul futuro della decostruzione qualcuno gli ha chiesto: «Ma perché senti tutta questa necessità di richiamarti al realismo e ai fatti? In fondo, le interpretazioni possono dare libertà». Ferraris ha risposto: «È vero. Ma possono anche negare tutto, comprese le peggiori tragedie della storia». Ripensandoci, è lì che è nata l'idea di un convegno sul "New Realism".

Il realismo è la grande novità filosofica dopo trent'anni di postmoderno, ed è un punto a cui sono arrivato, per parte mia, lavorando su una "fenomenologia dell'istituzionale" che, rispetto a Ferraris, è più aperta alle proposte di Foucault. Sull'essenziale però siamo d'accordo. Derrida, il nostro comune maestro, ci ha resi attenti alla necessità di decostruire, di smontare, di non fermarsi alle apparenze (perché ovviamente non tutto quello che appare è reale, ci sono anche le allucinazioni, lo sappiamo bene). Ma di farlo con una prospettiva di speranza, la speranza, appunto, che la decostruzione potesse portare emancipazione e verità. Se trascuriamo questa circostanza, si finisce nel nichilismo, una posizione che costituisce un problema non solo dal punto di vista teorico (perché è una negazione del sapere) ma anche, e soprattutto, dal punto di vista morale, perché se si sostiene che tutto è fluido e tutto è interpretabile anche il passato può essere riscritto.

C'è un altro segnale importante che, secondo me, viene dal "Nuovo Realismo", e che è particolarmente significativo per chi, come me, si è trovato a vivere e a lavorare in situazioni culturali molto diverse e a volte contrapposte (dall'Inghilterra alla Francia alla Serbia). Il postmodernismo, malgrado la sua pretesa di cosmopolitismo filosofico, era in effetti una teoria che si limitava alla cosiddetta "filosofia continentale". Con la svolta realistica si sta facendo esperienza di un dialogo tra scompartimenti un tempo non comunicanti, per esempio fra temi che vengono da filosofi analitici, come Searle, e temi che vengono da filosofi continentali, come Derrida.

Questo aspetto non mi sembra puramente formale, e tocca la sostanza del lavoro filosofico. Perché "Nuovo Realismo" significa confrontarsi sulle cose, senza limitarsi a chiedersi l'un l'altro "da dove parli?", il gioco postmoderno che spesso riduceva i confronti filosofici alla deferenza nei confronti dei rituali della propria tribù di appartenenza.

Un "Forum tematico contro le grandi opere inutili"


La valle a dibattito sulle grandi (e inutili) opere
Mauro Ravarino - Il manifesto, 26 Agosto 2011

Venaus/ DA IERI A SABATO TRE GIORNI DI FORUM
A Chiomonte continua la mobilitazione No Tav. Arrestato e incarcerato, dopo gli scontri di mercoledì, un attivista romano

Teoria e prassi. Anche questo è la lotta No Tav. Se sul campo continua a Chiomonte la mobilitazione del movimento contro l'ampliamento della recinzione di un cantiere ancora agli albori (di nuovo tensioni sotto il viadotto Clarea e fitto lancio di lacrimogeni contro gli attivisti), questa sera si inaugurerà a Venaus il «Forum tematico contro le grandi opere inutili». Quattro giorni di incontri e dibattiti con associazioni, studiosi e comitati di cittadini «nella consapevolezza che ambiente e salute non possono essere oggetto di mediazione e baratto» spiegano gli organizzatori, che per allontanare ogni allusione alla sindrome nimby sottolineano: «Difendere il proprio cortile significa iniziare a difendere quel grande cortile che si chiama Terra».
Aprirà il Forum, alle 21,30 il climatologo Luca Mercalli. «La maggior parte delle grandi opere degli Anni Duemila - spiega Mercalli - vengono promosse sfruttando l'onda lunga della retorica del progresso e della modernità, che attribuisce loro solo valori positivi, e se ci sono guasti ambientali da sopportare, pazienza, tocca metterli in conto in virtù delle luccicanti promesse di un futuro ridente». Nel dettaglio: «Il denaro viene assorbito dal contribuente in modo occulto, senza che vi sia una chiara indicazione di quanto pesa il gigantismo infrastrutturale sulla finanza pubblica. E i danni diventano così irreversibili: debito pubblico, cementificazione del suolo agrario, frammentazione dei biomi, inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei suoli, sperpero di energia e materie prime pregiate, produzione di rifiuti, devastazione del paesaggio». Poi, Mercalli aggiunge: «In Val di Susa con settantamila cittadini contro la dannosa linea ad alta velocità Torino-Lione, c'è ancora qualche speranza di ravvedimento».
Sabato, al liceo di Bussoleno, si terrà, dopo l'assise dei movimenti, un dibattito con Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano e fondatore del movimento «Stop al consumo di territorio», Sergio Ulgiati, docente di Scienze ambientali all'Università di Napoli e Ivan Cicconi, direttore di Itaca (Istituto per la Trasparenza Aggiornamento e Certificazione Appalti). Domenica, sempre a Bussoleno, interventi di Elena Camino, professoressa di Scienze Naturali, del filosofo Gianni Vattimo e della costituzionalista torinese Alessandra Algostino. Seguirà, alle 15, l'assemblea finale del Forum. Nel weekend sarà presente il comitato «Stuttgart ist überall» che si batte contro la realizzazione della stazione sotterranea di Stoccarda «costruita nonostante la popolazione non lo voglia e imposta con ogni mezzo, anche la violenza brutale». Nelle giornate sono previsti concerti serali e proiezione di documentari (come i lavori della regista Adonella Marena e le puntate del Tg della Maddalena) e, lunedì, un'escursione culturale e un trekking naturalistico in valle.
Tornando alla lotta sul campo, dopo gli scontri di mercoledì, è stato arrestato e portato nel carcere torinese delle Vallette un attivista del centro Sociale Acrobax di Roma, Giorgio Barbieri, 33 anni. Le ipotesi di reato formulate dal pubblico ministero Manuela Pedrotta sono resistenza e violenza a pubblico ufficiale, lesioni in concorso con altri e detenzione di materiale esplosivo (bombe carta). «Nessuno dei No Tav - denunciano Csoa Askatasuna, Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno e il circolo del Prc di di Bussoleno - però ha visto il fermo di Giorgio, neanche chi si trovava alle reti per le azioni di disturbo e questo ci porta a pensare che ci troviamo di fronte a un'altra ricostruzione parziale e fittizia creata ad hoc dalla Questura per criminalizzare il movimento».

lunedì 22 agosto 2011

Filosofía y Superstición

Filosofía y Superstición


Nietzsche nunca hubiese visitado Puerto Rico. Sufría de terribles jaquecas. Por recomendaciones médicas debía evitar la luz intensa y los climas extremos, ya sean fríos o calientes. Entre nosotros, ya se sabe, todo es intenso y extremo. Pasaba los veranos en los Alpes suizos, el invierno en la Riviera francesa y, entre abril y mayo, en la ciudad de Turín. De hecho, fue Turín la última morada del Nietzsche lúcido; después pasaría una década sumido en el silencio, enfermo y perdido. Fue también en esta ciudad, surcada mágicamente por el río Po, donde aconteció aquel célebre episodio del abrazo de Nietzsche a un caballo azotado a latigazos por un cochero. Todavía nos conmueve -en la barbarie vigente contra los animales- la imagen del célebre filósofo pidiendo disculpas al rebelde rocín por tanta bestialidad humana.

Escribo desde Turín. Llevo conmigo varios libros, entre ellos, “Nietzsche in Turin: an intimate biography”, de Lesley Chamberlain, y otro, del mismo Nietzsche, “Escritos desde Turín. Cartas y notas de locura”. Cada ciudad reclama un mapa intelectual propicio. Lo más relevante no lo he dicho aún: espero a Gianni Vattimo, filósofo turinés, inaugurador del pensamiento débil y uno de los más creativos intérpretes de Nietzsche y de Heidegger. Vattimo me ha invitado al Café Fiorio. Via Po, número 8, para más señas. El elegante filósofo, con abrigo y sombrero, llega también acompañado de su impecable cortesía y refinado sentido del humor. Vive frente al establecimiento, pero es otro el motivo de su elección: “este es el antiguo Café frecuentado por Nietzsche”. Pide un jugo de naranja con una gota de limón. Ordeno, por supuesto, un café. Anotada la selección, aclara: “en mi tierra invito yo”.

Gianni Vattimo es hombre de ritos, él los llama supersticiones. Todas las noches reza Completas utilizando el breviario latino: “Sé que nadie escucha, pero me reconforta, me da placer, así como me da más placer leer los Evangelios que el Kamasutra”. Todos los domingos va al cementerio a conectarse con sus compañeros Gianpiero y Sergio. “No sé qué pensar del más allá, pero necesito establecer una relación con mis muertos. De todos modos, la representación del más allá tiene siempre algo de idolatría. Lo ha dicho Pablo. Creo con Aristóteles que existen breves momentos de intensidad en los cuales se participa de la vida divina. Temo al cómo del tránsito no a la muerte misma”. Su mirada me recuerda que hoy es domingo.

A sus 75 años, el filósofo postmoderno afirma sin autocompasión: “vivo solo, con una empleada doméstica y un gato”. Seguramente un gato emparentado al descrito por Miguel de Unamuno: “Mi gato nunca se ríe o se lamenta, siempre está razonando”.

A diferencia de tantos postmodernos enrevesados, Vattimo piensa como filósofo, pero habla y escribe como periodista. “Si queremos que la filosofía juegue un rol, incluso político, en la cultura hodierna, lo mínimo es ser claro. Hay un complejo entre los académicos de que lo profundo y difícil debe ser incomprensible”. El también eurodiputado deja fluir su espíritu travieso: “leo de buena fe a colegas como Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Antonio Negri, pero me pregunto constantemente, qué es lo que dicen”. Muchos arquitectos y diseñadores se inspiran en sus ideas, pero él tampoco teme relativizarlos: “en muchos de esos muebles de corte postmoderno no me puedo sentar. Prefiero, entonces, el mobiliario del ochocientos”.

Vattimo es siempre impredecible tanto en sus respuestas como en sus posturas. Últimamente ha llamado la atención por su retorno al cristianismo de la mano poco mistagógica de Nietzsche, y de otro converso, René Girard. El mismo se refiere a esta etapa de su historia como “la más escandalosa”. Parte de la célebre frase de Nietzsche: “Dios ha muerto” y asevera que, lejos de lo que comúnmente se cree, no es una profesión de ateísmo. La frase nietzschena concluye: “y queremos que vivan muchos dioses”. Frente a la violencia de un fundamento único, deja abierto el camino del pluralismo, lo que le permite a Vattimo reencontrarse con un cristianismo no centrado en el poder, sino en el debilitamiento, en la caridad.

La tendencia postmoderna contrasta con otra que experimenté en un debate reciente entre escritores. Jorge Volpi dogmatizaba como en los viejos tiempos del iluminismo: “Todas las religiones son perniciosas. Deben desaparecer”. Es justo el tono ideológico que ha buscado deconstruir el pensamiento débil de Vattimo: “Sólo una filosofía absolutista puede sentirse autorizada para negar la experiencia religiosa”.

Se ha hecho tarde. Gianni Vattimo me explica cómo llegar al antiguo refugio de Nietzsche. Es domingo. Se despide supersticiosamente.

Vattimo, lezione sull'arte

 Vattimo, lezione sull'arte
Il filosofo al festival dedicato a Fante a Torricella Peligna

di Oscar Buonamano. Il Centro, 22 agosto 2011

«Vattimo è un’intelligenza che rimane», con queste parole il professor Giulio Lucchetta introduce Gianni Vattimo al pubblico che affolla la sala della mediateca di Torricella Peligna intitolata a John Fante. Sold out per la lectio magistralis del filosofo torinese che è stato preside della facoltà di Lettere e Filosofia della sua città. «Questa non è una lectio magistralis, ma una conversazione di sabato pomeriggio perciò non vi aspettate tutto messo in ordine», avverte Vattimo e si capisce che si diverte a giocare con le parole e a cercare continuamente un’interazione con il pubblico che raggiunge il culmine quando intona una canzone di Kurt Weill sfoggianfo un’invidiabile tedesco.
«Leggerei John Fante senza entrare nei meccanismi dei suoi racconti: Mi sono messo in una prospettiva diversa e mi sono chiesto: cosa posso dire io di questo autore?» Il suo approccio è concettuale. Fa continuamente ricorso a Martin Heiddeger per definire l’opera d’arte e il (suo) mondo. Così come pesca nella sua memoria di lettore tutti quegli autori che gli hanno aperto un mondo dentro il quale gli è piaciuto e gli piace vivere. Ma procediamo con ordine.
John Fante non ha mai messo piede a Torricella Peligna eppure la sua scrittura ha i piedi fortemente piantati in questa terra di mezzo tra il Sangro e l’Aventino, ai piedi della “Montagna Madre”, la Majella. Disvela un mondo a lui sconosciuto ri-producendolo in un altrove a lui già noto e per farlo attinge direttamente dalla sua memoria di figlio cogliendo quegli aspetti primari dell’esistenza umana e della sua comunità «nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose». Li re-inventa e reinventandoli gli restituisce significati perduti o banalmente dimenticati. In questo senso così come scrive Martin Heidegger, mutuando tale convincimento da Platone: «Tutto ciò che fa passare una qualsiasi cosa dalla non presenza alla presenza è poihsis, è produzione», John Fante porta alla luce un mondo, apre e svela nuove possibilità. Per Heidegger l’opera d’arte è tale se è capace di aprire un mondo.

Un mondo altro e diverso da ciò che c’era prima, e perché ciò avvenga c’è bisogno di uno “Stoss”, un urto, una forte discontinuità con ciò che già esiste e produrre un effetto spaesante. Questa ricerca dell’essenza prima delle cose per poter poi produrre e aprire un nuovo mondo riguarda l’opera d’arte in senso lato, la poesia, la letteratura, l’arte, l’architettura. Nel caso di un’opera letteraria e di un romanzo in particolare, ciò che conta è la capacità con cui un romanzo propone al lettore non solo una storia specifica da seguire ma un contesto umano, una comunità, in cui riconoscersi. In questo senso possono essere considerati autentici maestri autori come Bernard Malamud, Philip Roth ma anche Saul Bellow, Paul Auster. «Avendo letto la letteratura degli ebrei americani, in particolare di Malamud, mi aveva colpito la capacità di parlare a una comunità. In questi racconti c’è sempre un mondo di riferimento». In uno dei capolavori di Malamud,
The assistant, Il commesso nella traduzione italiana”, la forte presenza culturale ebraica rende “più facile” e veloce la comprensione presso una comunità molto vasta, pur avendo l’opera un carattere autenticamente universale. Ragionamento analogo si può fare per gli scrittori già citati.
Per esempio Philip Roth tracciando nei suoi lavori affreschi famigliari o di quartiere riesce nello stesso tempo a coinvolgere emotivamente una comunità, la sua comunità, e contestualmente a tracciare il profilo di un’epoca. Cogliere le cose «nel loro essere cose», avere come riferimento una comunità e, come ha recentemente dichiarato in un’intervista Jonathan Franzen, l’autore de Le correzioni e Libertà, «vedere gli scrittori parlare del mondo in cui viviamo, invece di rifugiarsi nell’adolescenza o in questioni marginali. Penso a quanto fosse eccitante in tal senso Saul Bellow».

Il secondo intermezzo vede come coprotagonista Giulio Lucchetta che interloquisce con Vattimo  leggendo un brano di John Fante tratto da La confraternita dell’uva: «Sì, me ne andai. Lo feci prima ancora di compiere vent’anni. Furono gli scrittori a portarmi via. London, Dreiser, Sherwood Anderson, Thomas Wolfe, Hemingway, Fitzgerald, Silone, Hamsun, Steinbeck. In trappola, barricato contro il buio e la solitudine della valle, me ne stavo lì coi libri della biblioteca pubblica impilati sul tavolo da cucina, solo, ad ascoltare il richiamo delle voci dei libri, con la brama di altre città». La fine della lettura del brano è accolta da un lungo applauso al quale si unisce anche Vattimo che approfitta dell’atmosfera complice che si è creata per esprimere tutta la sua passione per Fante, «Sento molto in John Fante la presenza di un mondo. L’opera d’arte apre un mondo dentro cui voi siete invitati ad abitare. Ed è molto interessante affrontare John Fante nel rapporto tra il mio mondo e il mondo del racconto» e ancora «l’esperienza di un mondo immaginario costruito bene è sempre un’esperienza critica nei confronti del mio mondo, questo vuol dire Heidegger quando dice che l’opera d’arte apre un mondo e vi cambia il modo di essere nel mondo». Il pubblico apprezza e Vattimo capisce che è giunta l’ora di chiudere il suo intervento. «Forse ci sarà un futuro, speriamo migliore di questo presente. Nel frattempo lasciateci coltivare la passione per John Fante e le sue storie». E un ultimo, lunghissimo, applauso chiude la serata.
A Torricella Peligna bisogna arrivarci non è un luogo che incontri per caso e in questo è simile, molto simile,  a quel deserto ai margini della città con il quale Arturo Bandini, l’alter ego di John Fante, ha imparato a convivere. «Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Il deserto era lì come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell’umanità e fui contento di farne parte. Il male del mondo non era più tale, ma diventava ai miei occhi un mezzo indispensabile per tenere lontano il deserto». Ha proprio ragione Vattimo, aspettando un tempo che verrà, continuiamo a godere con la lettura di John Fante.


Segnaliamo inoltre l'articolo appena pubblicato (19 settembre 2011) da Nicola Baccelliere su Controcampus.it.

domenica 21 agosto 2011

Feste laiche, la Cgil lancia una petizione

Feste laiche, la Cgil lancia una petizione
di Vittorio Bonanni
Liberazione, 20 agosto 2011

«Dipendesse da me strangolerei le banche piuttosto che abolire le festività laiche per risparmiare qualcosa». Non usa mezzi termini il filosofo Gianni Vattimo, da noi sentito per commentare appunto l'intenzione del governo di spostare, che tradotto significa cancellare, i tre giorni festivi che ricordano due momenti fondativi della storia della nostra Repubblica, il 25 aprile e il 2 giugno, e, con il l° maggio, l'importanza del mondo del lavoro nella realizzazione della nostra carta costituzionale. Non è un caso dunque che proprio ieri la Cgil abbia dato il via alla petizione per salvare le feste civili, contro una decisione che «colpisce l'identità e la storia del nostro Paese, ne indebolisce la memoria e rappresenta un grave limite per il futuro», producendo un beneficio economico «irrisorio». «Onorevoli parlamentari si legge nel testo della petizione, da sostenere firmando nel sito www.cgil.it o presso le Camere del lavoro i sottoscritti cittadini chiedono che il Parlamento cancelli il comma 24 dell'art. 1 del Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, "Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo". nel quale si prevede per tre importanti ricorrenze (25 aprile; I maggio; 2 giugno) una diversa collocazione o l'accorpamento ad una domenica. Questa scelta è sbagliata perché si colpiscono giornate che celebrano i tratti costitutivi, l'identità, la memoria dei nostro Paese; discriminatoria perché il numero maggiore di festività infrasettimanali sono di carattere religioso ed il nostro Paese è fra quelli che ha meno ricorrenze civili e laiche; strumentale perché produce un beneficio economico irrilevante a fronte di un costo civile e democratico particolarmente consistente; irragionevole perché non corrispondi ad alcun criterio di equità politica e sociale».


Angelo d'Orsi
Una mobilitazione che tutti si aspettavano e che «nel mio piccolo ho contribuito a produrre» dice lo storico Angelo d'Orsi, già autore di un editoriale su il Fatto Quotidiano su questo argomento. «Ero convinto commento lo studioso che la cosa non potesse passare sotto silenzio nonostante il periodo particolarmente propizio per introdurre provvedimenti scellerati nella distrazione generale ed approfittando del momento estivo. Nel mio articolo avevo scritto che avrebbero trovato pane per i loro denti e mi sembra che l'abbiamo trovato e lo troveranno ancora. Questa è una classica questione di principio che si associa però anche ad una questione pratica, perché intanto significa togliere tre giorni di permesso retribuito ai lavoratori. Ma appunto c'è anche una questione fondamentale che ha a che fare con i diritti dei cittadini e con l'esistenza stessa del nostro Stato. Si ha bisogno di alcune date fondanti degli stati. Sono le tappe della storia di uno Stato. E il 25 aprile e il 2 giugno lo sono. E il I maggio è una tappa .fondante del movimento dei lavoratori che in questo senso si ricollega alle altre perché l'articolo 1 della Costituzione repubblicana recita che "l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro". Togliere queste tre date sarebbe un colpo mortale per l'esistenza stessa del nostro Stato. Aggiungo anche che lasciare al loro posto le feste religiose sarebbe un uno-due intollerabile». Per il matematico Piergiorgio Odifreddi «prendere questa decisione adducendo ragioni economiche è come raschiare il fondo del barile. Certamente sarebbe molto più sensato far pagare le tasse a chi non le paga. In secondo luogo mi sembra che uno Stato degno di questo nome, e il nostro governo da questo punto di vista è indegno, salvaguarderebbe appunto le festività laiche legate alla sua formazione c semmai andrebbe ad incidere su festività che interessano ad altri, come le religiose che, quelle sì, potrebbero essere collocate la domenica, essendo appunto quello il giorno del signore. Ovviamente in Italia solo dire queste cose farebbe accapponare la pelle. Bagnasco per esempio ha detto che l'evasione fiscale è un grosso problema. Ma da che pulpito verrebbe da dire letteralmente, loro che beneficiano di mille privilegi!». Insomma una volta tanto c'è da essere ottimisti. Quella che l'astrofisica Margherita Hack ha definito una vergogna con tutta probabilità non passerà.

venerdì 19 agosto 2011

L'addio al pensiero debole che divide i filosofi

L’addio al pensiero debole che divide i filosofi

Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" che propone di riportare i fatti concreti al centro della riflessione

Maurizio Ferraris, La Repubblica, 19 agosto 2011

Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico è aperto. Grazie anche al convegno che si terrà a Bonn il prossimo anno sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. Il dialogo con Vattimo (che lanciò in Italia il pensiero debole con un´antologia curata con Pier Aldo Rovatti e uscita nel 1983 dove si guardava al postmoderno come ad una chiave per la democratizzazione della società, diffondendo pluralismo e tolleranza) cerca di affrontare i punti principali della questione.

FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio?

VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti?

FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent’anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all’epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d’atto di un fatto vero.

VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito".

FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verità è una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l´acqua, sia la base per ristabilire la giustizia.

VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verità accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salverà, dopo la sbornia ideal-ermeneutica-nichilista.

FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto all’accertamento della verità, oggi c’è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sarà poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?".

VATTIMO È ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ciò che "vedi con i tuoi occhi"? Sì, andrà bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale?

FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l’uscita dell’uomo dall’infanzia, l’emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell’università).

VATTIMO Chi dice che "c’è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c’è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d’accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente.

FERRARIS Se l’ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c'è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l’esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l’umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto perché è uscita dall’infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi?

VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dell’agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l’idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere?